Demoni e sangue nell'Italia cantata dal basso


pubblicata da Sebastiano Gulisano il giorno sabato 28 maggio 2011 alle ore 18.13



L’incontro. Francesco Saverio Alessio e Pietro Orsatti li ho conosciuti attraverso la rete, in tempi diversi. Il primo sul finire del 2007, l’altro un paio d’anni più tardi. A quel tempo, per me, non era Francesco Saverio Alessio ma «Francesco Saverio Alessio ed Emiliano Morrone». Mi imbattei in questi due nomi nel novembre del 2007, quando su Nazione indiana lessi un articolo in cui si denunciavano le minacce ricevute da Saverio ed Emiliano dopo avere scritto il libro-inchiesta su ’ndrangheta, massoneria e politica, La società sparente, che raccontava il sistema di potere calabrese rifacendosi anche all’inchiesta Poseidone dell’allora pm Luigi De Magistris e, per certi versi, anticipando quella che poi sarebbe stata l’inchiesta Why not? dello stesso magistrato, all’origine del violento attacco concentrico che lo ha costretto a lasciare la magistratura, mentre a Gioacchino Genchi, il suo consulente informatico, è costata l’espulsione dalla Polizia di Stato.

Quella volta pubblicai un post, nel mio vecchio blog e, tra l’altro, scrissi:

«Il potere della parola, specie nelle regioni meridionali, può essere devastante perciò le organizzazioni mafiose (ma non solo loro) lo temono. Ché la parola intacca il muro di omertà e di segretezza, lo sbreccia, può scardinarlo.Le minacce ad Alessio sono l’ennesima conferma della “pericolosità” della parole in una regione, la Calabria, dove c’è voluto l’omicidio Fortugno affinché cominciasse a nascere un primo embrione di movimento anti ’Ndrangheta. E mica è facile ribellarsi, in Calabria. Il più grande comune calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè grande quanto un quartiere di Palermo. La stragrande maggioranza dei comuni calabresi ha meno di 10mila abitanti (in una regione tutta montuosa non puoi costruire metropoli, che, comunque, non sono la soluzione) e ciò consente alla ’Ndrangheta di controllare anche i respiri delle persone, di impedire fisicamente l’esercizio della parola. Perciò tutti dobbiamo farcene carico, tutti dobbiamo essere le parole che i calabresi non possono pronunciare, affinché anche i calabresi che lo vogliono possano parlare liberamente. [...]

Per contribuire a fare uscire dall’isolamento coloro che, come Alessio e Morrone, intendono continuare a esercitare il proprio diritto-dovere alla parola, sarebbe auspicabile che oltre alla solidarietà, cominciassimo a raccontare le cose che loro raccontano. Ché la solidarietà non basta, si smette di essere bersagli se i bersagli si moltiplicano (“E ora ammazzateci tutti”) fino a essere così tanti da azzerare il pericolo».

Pietro Orsatti lo leggevo su Diario. Ci siamo anche incrociati, senza incontrarci, quando mi sono dimesso da Avvenimenti, in procinto di trasformarsi in Left, dove lui ha lavorato, per poi dimettersi a sua volta.

Con entrambi sono entrato in contatto qui, su Fb; Pietro, grazie al fatto che entrambi viviamo a Roma e per via di un comune amico, l’ho anche conosciuto personalmente più d’un anno fa e abbiamo lavorato insieme al progetto de Gli Italiani.

Ieri sera eravamo insieme, in una sala del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, a Roma. C’era anche quell’amico che in precedenza mi aveva fatto incontrare Pietro, Riccardo Orioles: un grande giornalista. Ieri sera, finalmente, ho anche incontrato per la prima volta Francesco Saverio Alessio che, dunque, non è più solo parole impresse su carta e rilegate in libro o parole che scorrono su uno schermo accanto a una fotina. È persona in carne e ossa, Saverio. E sebbene le minacce lo abbiamo costretto a scappare da San Giovanni in Fiore, il paesino silano dove è cresciuto, non ha perso la gioia di vivere e il piacere del sorriso, specie quando incrocia lo sguardo di Gabriele, la sua compagna berlinese.

L’occasione dell’incontro ci è venuta dalla pubblicazione di due libri: uno scritto da Pietro, L’Italia cantata dal basso. Finestre sbieche sul Belpaese, l’altro da Saverio, Demoni e sangue. ’Ndrangheta: un potere glocale e invisibile; entrambi pubblicati da Coppola Editore, cioè da Salvatore Coppola, tenace editore antimafioso trapanese. Due libri freschi di stampa, con ancora l’odore della tipografia addosso.

Il luogo. Trovarci nello storico circolo dei gay e delle lesbiche romani mi ha ricordato come l’omosessualità, in sé, abbia i germi dell’antimafia. Al di là delle enunciazioni di principio – «un uomo d’onore non può essere omosessuale», ci ha insegnato Buscetta – c’è una vicenda in cui ciò viene rappresentato in un’aula di tribunale, messo in scena come se quell’aula di giustizia fosse un palcoscenico teatrale. Processo per la strage di via D’Amelio. C’è da screditare un “pentito”, Vincenzo Scarantino, uno che molti anni dopo sapremo essere stato costretto dagli investigatori ad autoaccusarsi e accusare altri (un depistaggio il cui movente è ancora tutto da individuare), ma che in quel momento era il testimone principe della Procura di Caltanissetta, l’uomo che aveva reso possibile quel processo (da rifare) ad alcuni presunti partecipanti all’uccisione del giudice Paolo Borsellino e a cinque agenti della sua scorta. I difensori degli imputati, nell’intento di dimostrare che Scarantino non era e non poteva essere mafioso (e, dunque, le sue dichiarazioni erano false), portarono a testimoniare un omosessuale palermitano, un travestito che si prostituiva ed era noto come «Giusy la sdillabbrata». Giusy giurò di avere avuto numerosi rapporti sessuali con Scarantino. E se tanto mi dà tanto, uno che va coi «froci» non può che esserlo a sua volta, quindi non può essere «uomo d’onore».

I libri. Mica è facile star lì a “moderare” un dibattito – presenti una quarantina di amiche e amici dei due autori – su due libri estremamente diversi fra loro, sebbene complementari. Talmente complementari che Pietro e Saverio hanno scritto l’uno l’introduzione al libro dell’altro. Complementari perché entrambi, con stili e parole differenti, ci raccontano l’Italia dei poteri criminali, un’Italia in cui la sciasciana «linea della palma» ha ormai valicato le Alpi, l’Italia in cui il confine fra «Stato e Antistato» è diventato impalpabile, come se un occulto trattato di Schengen avesse definitivamente liberalizzato la circolazione di persone e “merci” fra due mondi in teoria contrapposti e incompatibili.

Complementari e diversi. Diversi nel formato e nella mole (114 pagine quello di Pietro, 488 quello di Saverio). Diversi nella struttura. Diversi nella scrittura, negli stili narrativi.

C’è una differenza di fondo fra i due amici scrittori e, di conseguenza, fra i loro libri: Francesco Saverio Alessio racconta luoghi, persone, fatti e misfatti radicati in Calabria, nella sua Calabria, nei luoghi dove è nato e cresciuto, in posti in cui se ti schieri contro i boss e i loro alleati, se denunci, se “tradisci” sei costretto a «non fidarti di nessuno, soprattutto dei tuoi amici!», ché il giorno in cui il killer verrà a cercarti per farla finita, sarà un amico a bussare alla tua porta, ad accompagnarlo o come esecutore. In ogni caso, carnefice.

Pietro è invece un giornalista che va in un posto, se ne rivà e ti racconta una storia. Decisamente un altro approccio. Senza contare il diverso coinvolgimento emotivo.

Ne ho conosciuti un bel po’ di “inviati”, più o meno “grandi”, che arrivano in un posto col pezzo già scritto in testa e se ne ripartono scrivendo quel pezzo, non una virgola in più né una in meno. Avrebbero potuto restarsene a casa, senza spostarsi. Giornalisti che hanno perso ogni curiosità, nonché la capacità di guardare e ascoltare; ma credono di sapere tutto. Invece non distinguono più gli odori, confondono i colori, non sentono i suoni. Hanno perso il “fiuto”. Pietro è esattamente l’opposto. Arriva a Palermo o Milano ed è un foglio bianco, una pellicola vergine. Sebbene, prima di partire, si sia adeguatamente documentato. Come il mestiere richiede. Pietro, prima di essere un ottimo narratore, è un cronista di razza, uno disposto ad ascoltare, osservare, annusare. Uno curioso, insomma. Ed è la curiosità – fondamentale nel mestiere di giornalista – che lo rende capace di restituirci i dettagli delle storie che racconta, come un puzzle in cui ogni tessera va incastrarsi al suo posto dentro un quadro d’insieme.

L’Italia cantata dal basso è un viaggio, una trentina di storie brevi, fotogrammi, sequenze di parole inanellate con «occhio da regista», sottolinea nell’introduzione Francesco Saverio Alessio: «Una cronaca nella quale l’osservatore e l’osservato sembrano vivere nello stesso “piano americano”, tutti e due attori della storia in atto». Un viaggio che si snoda lungo tutta la penisola, dalla Sicilia alla Romagna, da L’Aquila a Milano, da Roma a Casal di Principe. Ma anche dagli ultimi giorni del fascismo ai nostri giorni. In modo da ricordarci che c’è un filo che lega gli eventi, le storie, la Storia: qualunque pianta – anche le malepiante – ha radici, è a quelle che occorre risalire per comprendere ciò che è visibile. Ché le radici stanno sottoterra, sono “invisibili”. La stessa cosa vale per i fatti. Le radici stanno nel passato, non sempre vicino. E più il passato s’allontana più tende a essere “invisibile” in quanto estraneo ai ricordi individuali. Escluso dalla memoria. Anche da quella collettiva.

L’anno scorso Nando dalla Chiesa ha pubblicato un libro che s’intitola, semplicemente, Contro la mafia. E un sottotitolo che precisa: I testi classici. È un’antologia di testi sulla (contro la) mafia pubblicati prima del 1992, a partire del secondo Ottocento. Un tentativo di recupero della memoria che l’autore ha voluto regalarci perché «a un certo punto del suo cammino la cultura civile nazionale è apparsa dimezzata, priva di radici, proprio sulla principale questione irrisolta dei centocinquant’anni di storia unitaria [...] E questo paradossalmente dopo che il Paese aveva subito l’attacco più eclatante e sanguinario» di Cosa Nostra, le stragi del ’92-’93. Dalla Chiesa rileva che dalle bibliografie dei tantissimi libri sulle mafie pubblicati dopo quel biennio è sparito ogni riferimento agli studi precedenti, ai “classici”. Inoltre, ci avverte che «un fenomeno pressoché identico si è verificato nella comunità dell’informazione». Non sa dirci se per rimozione, oblio o perdita di memoria, ma rileva che tali elementi «si associano sempre a una perdita grande o piccola della propria identità».

Le finestre sbieche di Pietro Orsatti hanno il grande pregio di farci affacciare su un panorama che ci restituisce l’insieme delle cose, in cui le radici non sono occulte ma visibili, fotogrammi di un film documentario in cui il presente è sempre figlio del passato, conseguenza di esso.

Demoni e sangue. È un pugno nello stomaco. Fin dal titolo. Continuando a usare la metafora cinematografica, direi che, almeno nella prima delle tre parti in cui è suddiviso, è un film dell’orrore, di quelli in cui il protagonista ti trascina nei suoi vortici allucinati e allucinanti e il sangue sgorga abbondante, sprizza dappertutto, con la telecamera che zooma sui dettagli splatter. È un film di Dario Argento. Con l’hard rock dei Black Sabbath che suonano Paranoid come colonna sonora.

In questa prima parte, Francesco Saverio Alessio ci racconta le conseguenze personali del primo libro, quello scritto con Emiliano Morrone, quello che lo ha costretto a fuggire al Nord. Un racconto non scevro di flashback nell’infanzia e nell’adolescenza, col rock che si ammorbidisce nel blues di All my love o, meglio, Stearway to heaven dei Led Zeppelin.

Una prima parte, questa autobiografica, scritta col ritmo incalzante del romanzo horror. Né Lovercraft né Poe, no: la scrittura di Saverio ha l'incedere lancinante della chitarra elettrica e quello martellante della batteria. È hard rock. E quando s’addolcisce nei ricordi, è la voce di Robert Plant o quella straziante e infinitamente dolce di Janis Joplin.

«Saverio usa l’estetica e l’arte come arma politica», scrive Orsatti nella prefazione. La gioia di vivere come bellezza, la cultura di morte come bruttezza. Ed è un contrasto che ritroviamo nella scrittura stessa, quando, specie nella seconda parte del libro, l’incalzante racconto in prima persona di Saverio viene quasi soppiantato dalla durezza e dalla pesantezza del linguaggio degli atti giudiziari di Luigi De Magistris, dell’inchiesta Why not?, da quell’intrico di poteri politici (di ogni schieramento), massonici e criminali svelati dall’ex magistrato che lunedì potrebbe ritrovarsi sindaco di Napoli.

Se la prima parte (Il sangue degli angeli) racconta le conseguenze subite da Saverio dopo La società sparente, la seconda (Episodi di presunta corruzione giudiziaria e potere al cubo) è il seguito del libro scritto con Emiliano Morrone, l’evoluzione delle trame politico-affaristico-criminali narrate quattro anni fa. E qui lo scrittore preferisce fare parlare le carte, gli articoli del codice, l’arido ma efficace linguaggio degli atti giudiziari, limitando il suo ruolo e la sua penna alla funzione di collegare quasi didascalicamente i vari documenti.

Infine la terza parte (Le metastasi), in cui si raccontano l’infiltrazione della ’ndrangheta nel nord Italia e le sue propaggini nei cinque continenti. Una ragnatela nera alla quale l’autore contrappone un’altra ragnatela, quella di internet: la rete. Non certo come luogo della libertà e della democrazia tout court, come qualche acclamato guru va predicando, ma come strumento: «Una piccola ragnatela fra l’enorme ragnatela globale. Interconessa. Giorno e notte. In tutto il mondo. Ovunque ci sia energia elettrica, un computer ed una connessione a internet, il tuo pensiero appartiene al web. [...] Grazie al web hai testimoniato di accadimenti, condiviso progetti, trasmesso alcune idee altrimenti destinate all’oblio. [...] Spronati a coltivare la memoria quanto la gioia creativa. Ad ammirare la bellezza. Riflettere sul passato. Progettare il futuro. Ricomporre una memoria. La sfilacciata memoria di un popolo disperso in tutto il mondo».

Migranti.

Una migrazione che Saverio tenta di ricomporre, nell’ultimo capitolo, con delle pagine antologiche in cui l’ultima parola è affidata alla penna dell’amico Emiliano Morrone, trasformando la ragnatela in cerchio. Un cerchio che si chiude col coautore del primo libro – insieme al quale è stato tartassato di querele e minacce – che ricorda: «I procedimenti penali contro Alessio e me sono stati tutti archiviati. Nessuno, in Calabria, vuole parlarne. Come nessun politico, meno che l’onorevole Angela Napoli, già membro della Commissione parlamentare antimafia, ha condannato le minacce e le intimidazioni che abbiamo ricevuto. La società sparente».

Chi pensa di avere capito tutto sulle mafie, sul Sud, sul potere in Italia, lasci perdere questi libri. Chi, invece, coltiva ancora il dubbio, mantiene la curiosità e gli piacciono le storie raccontate consumando le suole delle scarpe, troverà negli scritti di Pietro e Saverio stimoli nuovi e sguardi originali per proseguire nell’interpretazione e la decriptazione di tanti aspetti per nulla scontati del Paese in cui viviamo.

***

qui si può scaricare La società sparente:

http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3843

qui c’è l’articolo di Nazione indiana citato all’inizio:

http://www.nazioneindiana.com/2007/11/04/minacce-in-calabria/

e qui il post che scrissi nel novembre del 2007:

http://almost58.splinder.com/post/14667136/le-parole-sono-pietre

qui un mio articolo sui giornalisti calabresi minacciati dalla ’ndrangheta:

http://www.gliitaliani.it/2010/06/avamposto-viaggio-nella-calabria-dello-strapotere-mafioso-e-dei-giornalisti-che-non-si-piegano/

e, dulcis in fundo, La rete di Coppola Editore:

https://www.facebook.com/home.php?sk=group_131819473559201


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